Dopo aver parlato per decenni del “rilancio” di Alitalia, ora la vicenda si sta avvicinando al suo naturale epilogo: una compagnia dalle dimensioni quasi pari a zero.
Continuare a ridurre è parsa a tutti la direzione più ovvia, lo sbocco più naturale della crisi, in linea con tutti i casi precedenti e perfettamente adeguata alla pandemia attuale che ha visto il grounding di praticamente tutti voli passeggeri.
Alitalia, secondo le voci attuali, partirà con una dote di 500 milioni e circa 25/30 aerei, pare di proprietà. Questi però andranno pagati al Commissario e per poco che si vogliano valutare, a 10 milioni l’uno, richiederebbero l’esborso di almeno metà del capitale iniziale.
Se Alitalia parte così, non parte proprio con il piede giusto. Quanto durerà in queste condizioni? Settimane? Mesi? Difficilmente arriverà ad un anno, perché è inimmaginabile che perda meno di 250 milioni in 12 mesi.
Tra un anno, anche sperando che ci sia un ripresa, le principali compagnie aeree mondiali staranno ancora leccandosi le ferite e se avessero ricevuto aiuti dai rispettivi governi, lo “shopping” all’estero sarebbe probabilmente vietato.
Il Governo pensa di buttare altri soldi in Alitalia tra un po’ di mesi, ma ora si può perché la UE ha sospeso alcuni vincoli, tra i quali quelli sogli aiuti di stato ma un domani questi potrebbero tornare.
Rimane anche un problema di equità di fondo: perché salvare Alitalia o un pezzo di Alitalia e non intervenire con soldi pubblici a favore degli (ex) dipendenti di AirItaly, Ernest o dei disoccupati di molte compagnie aeree. Prima del fallimento, Alitalia era al 100% privata, con al limite una modesta quota delle Poste. Non c’è un motivo oggettivo per salvare Alitalia e non AirItaly.
Ora il mercato del trasporto aereo è evaporato, quasi all’improvviso, in uno shock simile a quello dell’11 settembre o del vulcano islandese, ma più preoccupante e globale.
Le potenzialità dell’Italia sono sempre quelle: una compagnia aerea nazionale non deve andare solo a raccattare turisti in giro per il mondo, ma deve servire il tessuto economico ed industriale del paese, deve permettere lo scambio di idee, risorse e capitali senza passare da hub stranieri che diventerebbero più appetibili dell’Italia.
Senza una compagnia nazionale forte, siamo per quasi tutti i grandi player europei il secondo mercato del continente, dopo quelli di casa loro. Hanno fatto tutti affari d’oro tranne noi, noi ci siamo tenuti un’Alitalia che è un “ammortizzatore sociale volante”, sempre più piccola e sempre più irrilevante.
Il “potenziale” aeronautico dell’Italia è per due compagnie da circa 90 aerei, una basata a Milano e una a Roma. Fanno almeno 180 aerei, dei quali almeno 60 di lungo raggio, e questa si posizionerebbe un valido player nazional e continentale. Potrebbe nuovamente sedersi a i tavoli delle alleanze globali senza dover implorare di ricevere le briciole.
Oggi siamo “a bocce ferme”, sono tutti a zero e lo startup non risparmierà nessuno; varrebbe la pena tentare: dotare la nuova compagnia nazionale di un paio di miliardi almeno e creare un sistema nazionale che la possa supportare, con l’obiettivo di arrivare almeno a 180 aerei. Non ricapiterà tanto presto di non avere vincoli di bilancio o sul fronte degli aiuti di stato.
Questo è quello che hanno fatto i principali stati europei una ventina abbondante di anni fa: ora l’Italia ha un’occasione irripetibile di recuperare il tempo perduto e rimediare agli errori fatti.
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